Vaccinazioni anti Covid19 nei luoghi di lavoro e tutela della privacy del lavoratore. Un falso problema?
Il 6 aprile scorso, Governo e parti sociali hanno sottoscritto il “Protocollo nazionale per la realizzazione dei piani aziendali finalizzati all’attivazione di punti straordinari di vaccinazione anti SARS-CoV-2/Covid-19 nei luoghi di lavoro”, con la finalità di attivare un maggior numero di punti vaccinali ed imprimere così una decisa accelerazione alla campagna di prevenzione.
La sfida è rivolta soprattutto al futuro, laddove – in attesa di avere certezza sulla durata dell’immunizzazione e con la prospettiva da alcuni paventata di dover aumentare il numero dei richiami, a causa dell’emergere di nuove varianti – la collaborazione pubblico/privato e, segnatamente, l’impegno da parte delle categorie economiche a farsi parte attiva nella campagna vaccinale, può diventare un’arma decisiva contro il virus.
Fermo restando che l’approvvigionamento e la fornitura dei vaccini rimarranno in mano pubblica, si richiede alle aziende di assumersi gli oneri legati alla realizzazione dei punti vaccinali territoriali nei luoghi di lavoro, nel rispetto – in base alle “Indicazioni ad interim per la vaccinazione anti-SARS-CoV-2/COVID-19 nei luoghi di lavoro” rilasciate da INAIL l’8 Aprile 2021 – dei seguenti presupposti imprescindibili: 1. la disponibilità di vaccini 2. la disponibilità dell’azienda 3. la presenza / disponibilità del medico competente o di personale sanitario 4. la sussistenza delle condizioni di sicurezza per la somministrazione di vaccini 5. l’adesione volontaria ed informata da parte delle lavoratrici e dei lavoratori 6. la tutela della privacy e la prevenzione di ogni forma di discriminazione delle lavoratrici e dei lavoratori.
Immaginiamo per un momento che i primi 5 requisiti siano soddisfatti, circostanza affatto scontata, viste alcune difficoltà che, pur con i migliori auspici, non possono essere ignorate: il costo dell’operazione non può infatti essere ammortizzato se non in una logica di grandi numeri, motivo per cui le imprese dovranno per lo più aderire a questa campagna in forma aggregata, in primis attraverso le associazioni di categoria.
Il sesto punto, legato alla privacy del lavoratore ed al principio di non discriminazione, tocca il nervo scoperto di tutta la campagna vaccinale, tra chi avrebbe voluto un obbligo generalizzato, in ragione dell’emergenza pubblica, e chi reclama invece la libertà di scegliere se vaccinarsi o meno.
Il compromesso tra le due istanze è stato quello di imporre agli operatori sanitari l’obbligo vaccinale e invece persuadere la collettività sull’utilità del vaccino, per se stessi e per gli altri; compito, questo, svolto con alterne fortune e negativamente influenzato da campagne di comunicazione, che invece di aiutare il cittadino nello sviluppo di una scelta consapevole, hanno semmai ingenerato dubbi e perplessità anche in chi era già deciso a vaccinarsi (vedasi il caso AstraZeneca).
E allora, se il lavoratore può scegliere, come declinare il suo diritto alla privacy, con le esigenze di efficienza della campagna vaccinale sui luoghi di lavoro?
Il ruolo centrale viene affidato al medico competente, che già in precedenza la normativa emergenziale aveva individuato quale anello di congiunzione tra datore di lavoro e lavoratore per la gestione di alcune problematiche legate alla prevenzione del contagio.
Pensiamo all’individuazione ed alla protezione dei soggetti fragili, situazione che avrebbe altrimenti comportato la comunicazione al datore di lavoro di dati sanitari dei dipendenti, anche estranei allo svolgimento della mansione (è il caso di malattie, come il diabete, che possono non rilevare ai fini dell’inidoneità alla mansione, ma comportano un maggior rischio di evenienze negative, in caso di infezione da Covid 19).
Affidando il compito di “mediatore” al medico competente, il conflitto tra riservatezza del lavoratore ed esigenze di sanità pubblica sarebbe un falso problema, almeno secondo il Garante per la Privacy.
Con il provvedimento n. 198 del 13 maggio 2021, il Garante ha infatti adottato il documento di indirizzo denominato “Vaccinazione nei luoghi di lavoro: indicazioni generali per il trattamento dei dati personali”, nel quale si ribadisce il divieto per il datore di lavoro di trattare i dati personali relativi a tutti gli aspetti connessi alla vaccinazione dei propri dipendenti, anche se questi ultimi vi acconsentissero.
Sapere se i propri dipendenti sono vaccinati o meno, secondo il Garante, sarebbe comunque inutile: in virtù dei principi di volontarietà e di non discriminazione, non potrebbe far conseguire alcun effetto all’adesione o meno alla campagna vaccinale, non solo in termini negativi (sanzioni), ma neanche positivi (premi).
Tanto più che, se i dipendenti dovessero effettuare il vaccino in orario di lavoro, potrebbero farsi rilasciare un’attestazione di prestazione sanitaria indicata in termini generici, da consegnare al datore di lavoro per giustificare l’assenza.
E allora, problema risolto? Nì.
Le perplessità rimangono, per le ricadute che i citati provvedimenti produrranno nella pratica quotidiana, ed anche per il potenziale conflitto che ingenerano con il principio di responsabilità del datore di lavoro e dei lavoratori, circa la corretta applicazione delle misure di sicurezza e prevenzione in azienda.
Quanto al primo ordine di problemi, pensiamo alla stessa giustificazione dell’assenza di cui parla il Garante per la Privacy: in realtà il Protocollo sopra richiamato sostiene che “se la vaccinazione viene eseguita in orario di lavoro, il tempo necessario alla medesima è equiparato a tutti gli effetti all’orario di lavoro”, mentre la fruizione di “prestazioni sanitarie generiche” può semmai giustificare la richiesta di permessi retribuiti, che sono comunque previsti dai Contratti collettivi in numero limitato. E se il lavoratore li avesse già esauriti? Si troverebbe stretto nell’alternativa tra perdere ore di retribuzione o dover “svelare” il motivo dell’assenza ad un datore di lavoro, che non avrebbe neanche facoltà di ricevere questa notizia?
Si potrebbe rispondere che è un caso limite, che il datore di lavoro ed il lavoratore, come hanno per lo più fatto durante questa pandemia, risolveranno col buon senso, a fronte di esigenze ben più alte.
E’ guardando in alto, però, che i dubbi si addensano.
La normativa emergenziale, qualificando l’infezione da coronavirus in occasione di lavoro come infortunio, ha chiesto agli imprenditori di compiere un grande sforzo di responsabilità, addossando su di loro un rischio – nel maggior parte dei casi – estraneo all’attività aziendale, con la prospettiva che il vaccino avrebbe finalmente riportato il Paese alla normalità
Ad oggi, però, se tutti i dipendenti di un’azienda fossero vaccinati, nulla potrebbe cambiare in azienda, quanto all’utilizzo di mascherine, distanziamento, quarantena, isolamento o allontanamento dall’azienda per presenza di uno dei molteplici sintomi influenzali e così via.
E ancora: aspettando l’immunità di gregge, se chi sceglie di non vaccinarsi contraesse l’infezione in occasione di lavoro, oltre a ricevere la tutela assicurativa INAIL, potrebbe invocare la responsabilità civile e penale del datore di lavoro, oppure la sua scelta ha rilevanza in termini di interruzione del nesso causale? La scelta del dipendente di non vaccinarsi può essere considerata un “rischio elettivo”, considerato che il vaccino avrebbe altrimenti potuto impedire l’insorgenza della malattia?
La risposta è tutt’altro che scontata, ma è certo che in questo caso il datore di lavoro avrà tutto l’interesse a conoscere se il dipendente sia o meno vaccinato, invocando la prevalenza del proprio diritto, costituzionalmente garantito, di agire e difendersi in giudizio, rispetto alla tutela della privacy del lavoratore.