Vaccini e responsabilità penale e civile del datore di lavoro per infortunio Covid19. Tutto cambia affinché nulla cambi?
Chissà se, nella gestione dell’emergenza Covid19 nei luoghi di lavoro, era nelle intenzioni del Governo realizzare il celebre motto ispirato da Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa (“Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”): sta di fatto che i vaccini – lo strumento che secondo le attese, avrebbe dovuto restituirci una vita “normale” – sono finalmente arrivati, ma nei luoghi di lavoro siamo sostanzialmente ancora fermi ai Protocolli e alle misure di contenimento pre-campagna vaccinale.
Il vaccino contro Covid 19 non è obbligatorio, se non per alcune categorie di lavoratori, e quindi il datore di lavoro non può imporre ai propri dipendenti la vaccinazione, sotto minaccia di licenziamento, dal momento che l’art. 32 della Costituzione prevede che nessuno possa essere obbligato a un determinato trattamento sanitario, se non per disposizione di legge – devo tuttavia dare atto che, sul punto, le opinioni della Dottrina non sono univoche.
In ogni caso, non possiamo non considerare che il vaccino rappresenti la misura di prevenzione ad oggi ritenuta più valida ed efficace dalla comunità scientifica contro il contagio da Covid19, tanto più in presenza di varianti con maggiore potenzialità diffusiva.
Il rifiuto del vaccino da parte del lavoratore, seppur ad oggi legittimo, non può quindi essere irrilevante ai fini della valutazione dell’eventuale responsabilità datoriale in caso di infortunio Covid19.
L’imprenditore, come spesso è accaduto in questa pandemia, si trova infatti a dover gestire un cortocircuito normativo: se da una parte l’art. 2087 C.C. gli impone, in ragione della sua funzione di protezione nei confronti del lavoratore, di adottare tutte le misure più idonee a salvaguardare la sua salute anche contro il contagio da Covid19 (che, ricordiamo, il Legislatore ha qualificato come infortunio sul lavoro), dall’altra gli impedisce di utilizzare la misura di protezione ritenuta più avanzata.
Addirittura, ci ricorda la giurisprudenza di legittimità, le misure di sicurezza vanno attuate dal datore di lavoro anche contro la volontà del lavoratore: proprio perché il datore di lavoro è “garante” anche della correttezza dell’agire del lavoratore e deve vigilare sul rispetto da parte dei singoli lavoratori delle norme vigenti e delle disposizioni aziendali in tema di sicurezza del lavoro.
Insomma, non è sufficiente porre a disposizione del lavoratore il casco protettivo o prescriverne l’uso, ma è necessario esigere che il casco venga indossato.
Ma qui il datore non può esigere il rispetto della misura che principalmente dovrebbe prevenire l’infortunio da Covid19 (a ben vedere, non può neanche sapere se i propri dipendenti siano o meno vaccinati), dovendosi limitare ad adottare misure organizzative, distanziamento e mascherine che, se nell’epicentro dell’emergenza sanitaria apparivano un sacrificio necessario, ad oggi rappresentano un onere anche economico scaricato sul sistema imprenditoriale, a fronte della possibilità di utilizzare una misura di prevenzione gratuita e più efficace.
Ipotizziamo dunque che il lavoratore, a cui il datore di lavoro ha consegnato giornalmente mascherine idonee e che è stato formato sulle misure antiCovid19, possa dimostrare che il contagio è avvenuto in occasione di lavoro (ad esempio, si è ammalato perchè all’interno dell’auto aziendale nel tragitto per andare a svolgere un servizio fuori sede, teneva la mascherina abbassata ed era a contatto con collega positivo) e che tale lavoratore abbia scelto di non vaccinarsi.
Per quanto riguarda la tutela assicurativa, INAIL è chiara nell’affermare che la colpa del lavoratore, che abbia tenuto un comportamento imprudente e contrario alle direttive aziendali (nell’esempio sopra riportato, il lavoratore non ha utilizzato correttamente il DPI a disposizione) di norma non escluda la tutela INAIL.
Ma secondo l’Ente, neanche il rifiuto del dipendente a sottoporsi al vaccino contro il Covid 19 può escludere tale copertura, giacché “il rifiuto di vaccinarsi, configurandosi come esercizio della libertà di scelta del singolo individuo rispetto ad un trattamento sanitario, ancorché fortemente raccomandato dalle autorità, non può costituire una ulteriore condizione a cui subordinare la tutela assicurativa dell’infortunato” (v. Nota INAIL n.2402 dell’1/3/2021).
Può tuttavia il rifiuto di vaccinarsi del lavoratore ridurre oppure escludere la responsabilità del datore di lavoro per l’infortunio occorso al dipendente?
La questione non è di facile soluzione, laddove la giurisprudenza è consolidata nel ritenere che l’eventuale concorso di colpa del lavoratore nella causazione dell’infortunio non abbia alcun valore esimente, se non quando il dipendente abbia posto in essere “un contegno abnorme, inopinabile ed esorbitante rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, sulla base di una scelta arbitraria volta a creare e ad affrontare, volutamente, per ragioni o impulsi personali, una situazione diversa da quella inerente l’attività lavorativa, creando condizioni di rischio estranee alle normali modalità del lavoro da svolgere e ponendosi, in tal modo, come causa esclusiva dell’evento dannoso”. (Cass. Civ. Sez. VI, ord. 12 febbraio 2021, n.3763).
Appare difficilmente sostenibile che il rifiuto – legittimo, in assenza di obbligo – di aderire alla campagna vaccinale possa essere considerato quale comportamento abnorme del dipendente.
Torniamo dunque all’esempio sopra riportato: sebbene il datore di lavoro abbia consegnato i DPI e formato i dipendenti, era tenuto ad una maggiore vigilanza? Avrebbe dovuto, poiché tale misura senz’altro nel caso di specie avrebbe escluso il contagio, obbligare i propri dipendenti ad utilizzare un’auto aziendale ciascuno? Avrebbe dovuto far accompagnare gli operai da un preposto con la specifica funzione di “controllore” del rispetto delle misure anti Covid?
Ovviamente si tratta di esempi limite, ma tutt’altro che irrealistici: il punto nodale è che, se anche fosse possibile approntare tutte le misure di sicurezza che possono evitare il contagio e supponendo che queste abbiano la stessa efficacia del vaccino, ognuna di queste misure rappresenta un costo per l’impresa, estraneo all’attività lavorativa.
Con un quadro radicalmente mutato dall’introduzione dei vaccini, non si può pertanto trattare il tema della sicurezza sui luoghi di lavoro e della responsabilità datoriale come se fossimo fermi all’inizio della Pandemia.
Questo a mio parere non significa che si debba ricavare forzatamente dalle norme vigenti un obbligo vaccinale contro Covid19 che il Legislatore deve scegliere se introdurre, né che si debba colpevolizzare, negandogli la tutela antinfortunistica, il lavoratore che viene messo nelle condizioni di poter legittimamente rifiutare il vaccino.
D’altra parte, non vale però neanche rispondere che il vaccino non sarebbe risolutivo perché non può essere efficace al 100%: la Cassazione ha escluso la responsabilità di una struttura sanitaria nei confronti di una tirocinante, che aveva contratto una malattia nonostante la somministrazione del vaccino, perchè, da un lato, non poteva essere garantita l’assoluta salubrità dell’ambiente di lavoro (e questo purtroppo vale ovunque anche con Covid19) e “dall’altro la vaccinazione, nella normalità dei casi, impedisce il contagio e la resistenza al vaccino, seppure possibile, non poteva essere ascritta al datore” (Cassazione civile sez. lav., sent. 10 dicembre 2018, n.31873).
A mio modesto avviso, uno problema discende dal fatto che quando parliamo di prevenzione del Covid19 tendiamo a confondere i piani di tutela.
Prevenire la diffusione del contagio è compito delle Autorità Sanitarie Pubbliche: i datori di lavoro possono cooperare per la migliore realizzazione di questo obiettivo, ma non possono esserne responsabili.
La responsabilità datoriale attiene invece alla salute dei propri dipendenti, alla possibilità che questi si ammalino sul luogo di lavoro e ne subiscano conseguenze permanenti o addirittura letali, proprio le evenienze contro le quali i vaccini hanno dimostrato la loro efficacia.
Tornando quindi al conflitto tra il diritto a rifiutare il vaccino e la responsabilità datoriale per l’infortunio da Covid19, lancio una provocazione: se il Legislatore, scegliendo per la volontarietà del vaccino, impedisce alle imprese di usare la misura di sicurezza ritenuta più efficace per evitare l’insorgenza della patologia e le sue conseguenze dannose, offre al contempo al datore di lavoro la sua prova liberatoria dalla responsabilità ex art. 2087 CC.
Nell’attuale contesto normativo, nessun Giudice potrebbe infatti negare che, laddove il datore di lavoro avesse rappresentato ai propri dipendenti – nel rispetto della loro libertà di scelta – l’opportunità di vaccinarsi, avrebbe già fatto tutto il possibile per evitare il danno.